lunedì 13 febbraio 2017

Artista si è o si fa?

Avere o essere? Un dilemma lanciato negli anni settanta da Erich Fromm che ha contagiato una generazione e che potrebbe essere parafrasato in molti modi e in molte circostanze.
Ogni tanto questo dualismo della visione dell'etica mi si ripropone sotto nuove forme ed articolazioni.
Al momento quello che mi sovviene è la sua parafrasi in "Fare od Essere". Lasciando perdere il toscano che da molto tempo interroga i suoi concittadini chiedendogli "ci fai o ci sei?", io mi domando se questo dilemma possa essere, e soprattutto quale possa esserne la risposta, applicato al mestiere dell'artista.
Indubbiamente, per certi versi quello dell'artista può essere considerato un mestiere, per altri versi, ed è innegabile, una condizione dell'essere.

Credo che non mi stancherò mai di ripetere la metafora marxiana sul modo di produzione dell'arte (K. Marx, Teorie sul plusvalore, I, pp. 599-­600), o meglio sulla condizione del lavoro dell'artista, in cui, individuato l'artista come lavoratore improduttivo, viene paragonato al baco da seta ed al suo modo di produrre. Una bella immagine che ci restituisce una nozione: il fare arte non può che essere una condizione ineludibile che spinge un essere a produrre determinate cose guidato esclusivamente da un estro naturale.
Da qui parrebbe che l'idea dominante identifichi l'artista come una condizione dell'essere.
Ma lo stesso Marx, nello stesso saggio, parla di lavoratori produttivi nel mondo dell'arte. Questi lavorativi producono in qualità di salariati e producono comunque cose artistiche. Pertanto la palla viene rimandata indietro e ci ritroviamo al centro campo. In Marx non troviamo la risposta definitiva tra "essere" e "fare" l'artista, ovvero tra lavoratore improduttivo e lavoratore produttivo.


Va da se che alcuni artisti, una volta trovato il successo, "fanno" gli artisti e trasformano la loro natura "estrosa" in una più materiale e pragmatica. Ma possono essere biasimati per questo? Dopotutto è la società a volerli così, oltre che, forse, a crearli così. La società crea il mercato, il mercato crea "l'artista che fa l'artista".

Forse potremmo pensare che gli artisti "puri", quelli "estrosi", quelli che "sono" siano migliori in quanto integri e che nulla concedano al "fare" così greve e materiale, contrapposto all'etereo essere. Forse potremmo crederli migliori non concedendo nulla al "fare" che consentirebbe loro di comunicare la loro arte ad una platea di pubblico più ampia. Ma ne siamo sicuri?
In "Sentimento e Forma" Susanne Langer mette in evidenza l'esistenza di un equilibrio tra le forze contrapposte in cui potremmo vedere l'essere come un'aspetto del sentimento e il fare come un aspetto della forma.

Ma un altro pensatore occidentale ci guida tra questi equilibri con altri parametri e altri riferimenti: Abraham Moles con il suo saggio "Il kitch e l'arte della felicità" ci introduce in un modo ordinato ed equilibrato in cui quantità controllate di condiscendenza nei confronti del pubblico (contenuto di kitch), non solo sono accettabili, ma necessarie per permettere il superamento del "rumore di fondo" che inevitabilmente esiste nella veicolazione di messaggi tra soggetti, produttore e fruitore, che hanno culture differenti  e parlano lingue reciprocamente estranee.

Pertanto il segreto non è essere o fare l'artista, ma trovare quel giusto equilibrio che consenta di comunicare quanto si ha da dire e di farlo nel modo più sincero possibile, nei limiti della comprensibilità, senza però concedere troppo al Kitch.
Dopotutto anche Don Qixotte aveva un Sancho Panza a riportare l'equilibrio tra il suo essere e il suo fare. Fosse stato solo, Don Quixotte sarebbe stato solo un cavaliere, invece, grazie al suo contraltare che spronava e frenava, ha potuto vivere le proprie avventure senza perdersi definitivamente nel suo essere.
Certo che se è possibile insegnare il fare, per l'essere le cose sono molto differenti.
Qualcuno potrebbe pensare a qualcosa di genetico, una predisposizione biologica. I più mistici potrebbero pensare ad un dono divino o a favorevoli congiunzioni astrali. Certamente l'ambiente aiuta, così come la volontà di trasformare l'ambiente che ci circonda in uno più consono a sviluppare una personalità adeguata alle proprie aspettative. Pertanto nulla è perduto. Per quanto si possa pensare alla propria negazione, ci sarà sempre un modo, sempre che ci sia la volontà, per costruirsi un "essere" assecondando il proprio "fare", così come ci sarà sempre il modo di arricchire il proprio "fare", assecondando il proprio "essere".

L'argomento può chiudersi qui? Forse. Ma forse si possono trovare altri spunti di riflessione.

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